Danilo Aprigliano

Arturo

Lo avevano fatto già passiare una mattinata intera per sistemare tutti quei tavoli, finire la spesa e fare centomila telefonate, quando Michele Scogliamiglio gli fece sapere che sì, al congresso provinciale, i ragazzi di Ronconi l’avrebbero pure portata, la sua candidatura alla segreteria della giovanile del partito, ma che, però, il boss della gran ciuffola voleva uno in più dei suoi nel direttivo e non vedeva proprio l’ora di parlargli.

Incominciò allora, come se avesse avuto di fronte un breviario con le litanie dei santi, a bestemmiare, sia in prosa che in versi, ogni divinità cristiana e pagana, mentre maneggiava con tavoli e sedie e sistemava il necessario per la giornata di manciareddri che sarebbe iniziata di lì a un’ora. Ma che volevano ancora quei grandissimi cornuti? Gli volevano spolpare pure la carne dalle ossa? Riprese allora di nuovo in mano il telefono e iniziò a contrattare: per cercare, almeno, di rimandare il dibattito a dopo – prendendosi il tempo di trattare anche con i capi degli altri giri di delegati – prima di ricominciare a giriàre avanti e indietro per la casa e la città.

Intanto persone – alcune con chitarre, tamburi e vino; altre costosamente vestite a comunicare eleganza e ricercatezza – incominciavano ad arrivare e lui non aveva ancora finito: poteva permettersi qualche figura malamenti per quello stronzo?

Giusto mentre si aggiustava la giacca nello specchio vicino al giardino – sperando, insomma, finalmente, di potersi sedere a chiacchierare e cantare con gli altri – gli si presentò davanti Fulvia, con le sue maledettissime fissazioni, a mettergli il cruccio che, intanto, alla sede locale stessero lavorando e ragionando per cavargli a puntino l’orifizio posteriore. Quella grandissima paracula di Giuseppina Gladio ormai non faceva altro che tramare dalla mattina alla sera pur di prendere il controllo di tutto e farsi candidare dove voleva lei.

Non gli restava altro che rivolgersi all’unico uomo in grado di garantirgli – in cambio, si intenda, di un futuro e incondizionato appoggio – la fedeltà dei delegati di quella sede: l’assessore Barile, capo indiscusso e gran burattinaio del circolo.

Ma non lo trovò in nessuno dei luoghi in cui avrebbe dovuto trovarsi, non fu capace di contattarlo per telefono e nessuno sapeva dirgli niente di dove diavolo fosse andato a ficcarsi quel grandissimo puttaniere.

Se ne tornò alla villa quando già la festa aveva preso a procedere a pieno regime senza di lui. Tutti lo salutavano e lo baciavano e lo chiamavano da parte per parlargli di questo e di quello, delle prossime mosse e di ciò che non facevano altri e di cosa altri ancora potevano pensare e avere in mente finché, cominciando seriamente a rompersi di tutti quegl’impicci continui che gli si presentavano davanti, mandò tutti, mentalmente, a fare in culo e andò a sedersi là dove c’erano le chitarre e i canti.

Sul tavolo grande della sala stavano appoggiate tutte le teglie col cibo portate dagli invitati. Alcuni stavano preparando le dosi e servendo i piatti mentre altri davano mano ai fusti e alle bottiglie di vino.

«Ma che canzone stai sonanno?» urlò Michele mentre dall’alto passavano, di mano in mano, piatti con lasagne, salsicce e funghi, patate e peperoni, arancini e polpette e partiva un coro di canzoni popolari, di bicchieri che si riempivano e di brindisi vari.

Fu quello l’istante in cui, quando tutti gridavano e sghignazzavano per i fatti loro, sentì Lorenzo Grignoni – quello che si era fatto assumere al comune grazie a un interessamento particolare di Barile mettendolo sonoramente in quel posto a Flavio Palmieri, che credeva di riuscire ad accaparrarsi tutti i posti per sé e per i suoi – sentì dirgli, dicevamo, a Fulvia che Maria c’era riuscita finalmente a superare il provino per la scuola di recitazione al Goldoni di Roma. Ormai era lanciata come un treno per andare avanti nella vita e il merito era tutto di Barile che se la passava e ripassava a piacimento scialandosi in quel corpo disegnato come un capolavoro per i piaceri della minchia.

Diodiodiodiodiodiodiodio! – gli partì subito nella mente appena sentì queste parole che gli erano sembrate peggio di un pugno negli intestini – di che caspita stavano mai parlando queste reliquie di umanità? Lo stavano coglionando?. La Maria che lui non s’era mai riuscito a cacciare dalla testa, quella grandissima tortura di viscere che non riusciva ad abbandonarlo da anni? Sì, era proprio lei!

Pareva già un morto quando decise di alzarsi da quello scranno per fare finta di telefonare. «Vafanculu!» urlò a mezza voce mentre, dopo aver preso la grappa dallo stipo, se ne riempiva un bicchiere sano sano come se, con quello, ci potesse ammazzare tutti i pensieri che lo stritolavano.

Musica chiacchiere risa e sghignazzi da fuori completavano l’opera.

Ma tornò presto a sedersi con gli altri, a bere il vino e cantare come un disperato per non pensare.

Gli oleandri che recintavano il giardino parevano incorniciare tutta quella feccia che gli girava intorno come se si sforzassero, poveracci, di rendere tutto più bello.

Il cervello cominciava a camminare avanti e indietro come se fosse pigliato da uno spasimo di febbre. Si tummò un altro bicchiere e iniziò a cantare gridando canzoni a caso che gli altri cercavano di accompagnare con le chitarre e la voce.

«Ma che ti piglia: ti sei ubriacato?» gli diceva in un orecchio Guido, suo amico da una vita e il più fedele.

«No, no, no statti pure tranquillo: è tutto apposto. Oggi va così: non voglio stare a pensare».

«Stai attento però ché tieni delle iene intorno».

Andarono avanti così fino a sera quando, come sempre, restarono solo i classici figli di una grandissima cornuta con i quali si stava a parlare delle cose serie.

«Ma che veniva a significare quel cretino di Marazza con le sue battutine continue – prese a dire Lorenzo mentre cercavano di attizzare il barbecue colle frasche secche – Che pensano: di farci un favore sostenendoci al congresso? È più quello che guadagnano di quello che ci danno!».

Gianluca Marazza era il più parlettiero dei ragazzi di Ronconi: voleva bluffare e farglielo un po’ sudare il loro sostegno.

«Eh, lo sai com’è fatto – rispose Michele – sembra sempre col peperoncino al culo quando si crede importante per qualcosa»

«Gli dovremmo giocare qualche bello scherzetto a questi figli di puttana!»

«Ma no no, – intervenne Fulvia – che questi poi ci fanno il pelo e il contropelo. Lo sapete che sono fegato e trippa con la segreteria regionale».

«Artù, non dici nenti? Che ne pensi di’ ‘sti fitusi? – gli si rivolse Guido notando che con la testa non ci stava proprio lì con loro – Tu dici che giocano giusto o ci vogliono gabbare belli belli?»

Li avrebbe volentieri mandati tutti a farsi strafottere da un’altra parte. Ma si contenne e recitò bene il suo ruolo, come al solito:

«Ma no, non vi preoccupate, ragazzi. State tranquilli ché quelli giocano tanto a fare i guappi ma poi s’accodano, credete a me. Sono degli zingari e ci vogliono mangiare sopra più che possono».

Intanto gli passarono un morzo di salsiccia piccante appena arrostita e un pezzo di pane ammogliato sulle stesse salsicce che cuocevano, con la mollica diventata rossa rossa. Gli passarono pure un altro bicchierazzo di vino, come se ne avesse bevuti pochi. E se lo bevve in un attimo, morsicando di tanto in tanto il cibo.

«Dai, dai, dai! Facciamo un brindisi! – presero a dire tutti sulla scorta di Lorenzo – Brindiamo al nostro Arturo Andreoni prossimo segretario provinciale».

Si stampò un sorriso sulla faccia e brindò bestemmiando nella sua mente ogni santo e santissimo che potesse azzeccarci qualcosa.

Andarono avanti così ancora un paio d’ore finchè, finalmente, la serata non finì e Arturo poté respirare e provare a sfogarsi.

Si fiondò subito in casa e si tuffò sulla sua libreria. La cercò e ricercò. Dove si era andata a ficcare? Eccola qua: la Saison di Rimbaud. Si ci sentiva davvero, perduto e ubriaco, impuro. Quante lacrime, divino sposo! E i deliri e le torture gli pareva stessero incancrenendogli il cervello come se il demonio volesse trattenerlo, come se rendesse bestiame tutto quello che gli stava intorno e quella vita di cui non ce li aveva davvero i segreti per cambiarla. E davvero non faceva che cercarli, sempre, in continuazione, e non li trovava, non li trovava. Che strazio, che inferno. Che opera favolosa sarebbe voluto diventare. Ma i filosofi, che infortunio straziante la filosofia! Povera anima cara, perché fai questo?

Lesse e rilesse per ore: per cercare di darsi una risposta che sapeva già non ci sarebbe riuscito proprio a darsi.

A volume altissimo alcune arie d’opera vibravano per tutta la casa in mezzo ai libri buttati a terra nella sala. «E ridi, pagliaccio!» Si sbraitava intanto. Recitare – sempre – mentre preso dal delirio non si sa nemmeno quello che si dice o pensa – e pensare, tenere celato il pensiero, è troppo importante in certi casi – eppure bisogna sforzarsi; non siamo forse uomini? No, siamo pagliacci!

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